L’angoscia del Dado. Una riflessione

Arriva sempre nella vita del giocatore da tavolo medio il momento di confrontarsi con la Dea degli imprevisti: la mitica Alea. Osannata o maledetta, ha sempre accompagnato l’uomo sin dall’antichità.

Necessaria componente del lusus antico, ha assunto vari usi e forme nel corso del tempo. Mai del tutto dimenticata, è sempre intervenuta ad ogni lancio di Dado, il suo principale oggetto di culto ludico.

Ed è proprio il Dado – o i Dadi – ad aver sia aiutato che messo in difficoltà i giocatori. Li abbiamo visti in giochi fanciulleschi come il Risiko ed il Monopoli; nelle simulazioni di guerra con miniature o counter; nei giochi gestionali come Stone Age, Marco Polo, The Castles of Burgundy; rimodellati per differenti scopi, come in Dice Forge, Sagrada, Quarriors. Infine li abbiamo utilizzati in giochi puramente numerici, come Perudo o Yatzee. In ognuno di questi casi, indipendentemente dal numero di dadi lanciati, qualcosa in noi è cambiato. Gioia, euforia, rabbia, frustrazione, speranza e soddisfazione hanno accompagnato ognuno di quei lanci. Talvolta l’Alea ci ha graziati, quando abbiamo benedetto i dadi soffiando nella mano che li stringeva; altre volte si è presa gioco di noi e dei nostri amici, lasciando i dadi in bilico o scaraventandoli nella lettiera del gatto o sotto al mobile e scatenando litigate sulla possibilità di un rilancio; altre volte ancora l’abbiamo sottomessa al nostro volere, utilizzando i simpatici Modificatori, utili attrezzi umani atti a limitare il potere devastante dell’Alea.

Eppure, nonostante tutto, molti sembrano non apprezzare il fascino della Dea dalle mille facce. Che siano D3, D6, D8, D10, D100, chi li detesta e prova angoscia solo al pensiero di doverli tirare, finirà per ignorare ogni gioco in cui essi compariranno fra i componenti.

Per quale motivo il dado fa così paura? Perchè i teutonici gestionali, tranne in alcuni casi, prediligono il Determinismo dell’azione-reazione non mediata da dado?

Tirare un dado significa sia togliersi la responsabilità delle proprie azioni che affidarsi al destino per ricevere una reazione ad esse. Il dado è assolutamente trascendentale. Giocare senza dadi significa calcolare, responsabilizzarsi e conoscere i propri limiti e le proprie possibilità. Quando posizioniamo il simpatico lavoratore non salariato di legno – comunemente chiamato Meeple – su uno spazio azione, abbiamo già fatto i conti con la reazione che riceveremo. Quando – giocando ad Agricola – mando il mio affamato contadino a recuperare il legno, so già quanto legno il mio lavoratore mi procurerà ed i base a questo posso pianificare le mie successive azioni. Quando invece mando il mio primitivo nella foresta di Stone Age, non so minimamente quanta legna porterà a casa, perchè lanceró il dado e mi affideró al verdetto dell’Alea (seppure mediato eventualmente dai miei preziosi Strumenti).

In alcuni casi tuttavia, il dado arriva lì dove il determinismo si ferma. Un wargame senza dadi e tabelle, sarebbe arido come una sequenza di mosse a scacchi. Giocare con la storia significa anche lasciare spazio al What if?. Immaginate un wargame sulla seconda guerra mondiale con i soliti due eserciti : Alleati e Asse. Se fosse assente del tutto l’Alea – in forma di carte, dadi, pesca di counter – nessuno vorrebbe giocare mai l’Asse e perdere tutte le partite per via dell’eccessiva aderenza storica del gioco. Questo è solo un semplice esempio ma esistono innumerevoli altri casi in cui il dado, per quanto odiato o glorificato, risulta necessario per un gioco.

Dall’altra parte, il determinismo in alcuni casi è di fondamentale importanza per dare una maggior profondità strategica ad un gioco e garantire al giocatore una base solida su cui edificare la propria partita. Immaginate una partita a scacchi con i dadi ad esempio: sarebbe una schifezza assurda. Il cavallo mangia ma solo con 3 o più, altrimenti torna indietro. Kasparov si rivolterebbe nella tomba.

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